Differenti modi di fruire la montagna si sono susseguiti nel corso dei secoli. Luca Gibello, fondatore dell’associazione culturale Cantieri d’alta quota, ha accompagnato il pubblico di UNIMONT, Polo dell’Università degli Studi di Milano a Edolo, in un excursus storico sul rapporto tra uomo e terre alte.

Il titolo di questa presentazione, Selfiescapes, rimanda all’utilizzo odierno della tecnologia e al modo in cui la nostra relazione con le immagini sia stata stravolta.

Tutto diventa equivalente e trascurabile nella misura in cui, fortemente tentati di scattare foto in ogni contesto, ci affidiamo maggiormente al mezzo dello smartphone rispetto alla nostra esperienza diretta dei luoghi che visitiamo.

Le immagini rappresentano dunque il modo, oggi prevalente, di vivere la montagna. Molto diverso dalla visione di un tempo, che la percepiva come spazio bianco. Un luogo abitato da mostri e spiriti arcani pericolosi: un errore della natura.

da sinistra: Giorgio Azzoni (Festival all’insù), Luca Gibello, Franco Capitanio (CAI)

Il cambio di paradigma è arrivato con le scoperte scientifiche dell’Ottocento, che alla dimensione dell’alta quota hanno donato una forte visibilità, liberando la montagna dalle antiche credenze.

L’attenzione filosofico-scientifica dell’800 ha lasciato sempre più spazio a una visione di Alpi come “playground of Europe”. In questa definizione di Leslie Stephen, uno dei primi Presidenti dell’Alpine Club inglese, il paesaggio alpino viene considerato alla stregua di un parco giochi, in cui i cittadini europei possono dedicarsi allo svago.

Il desiderio di volgere lo sguardo verso l’alto, proprio dell’alpinismo e delle aspirazioni umane, ha mosso la curiosità dei turisti verso le vette innevate. Si sono progettati treni a cremagliera e valichi per portare alla cima. Strumenti funzionali sì alla conquista dei picchi, ma anche alla crescente affermazione della classe borghese.

Lontana da una (più attuale) idea di protezione ambientale, la volontà di esercitare un controllo almeno visuale sul territorio ha scaturito il desiderio di dominare le terre alte, spingendosi a toccare i 4.000 metri.

In tal senso è iconico il progetto dell’ingegnere Adolf Guyer-Zeller, ideato per risalire la Jungfrau in Svizzera con una linea ferroviaria. Intervento frenato dallo scoppio della Prima guerra mondiale.
Svariati i tentativi – mancati – con cui la città ha cercato di meccanizzare la montagna.

Due tra questi, separati da 100 anni l’uno dall’altro, hanno toccato la stessa area. È del 1906 il progetto di una tramvia sotterranea per il Cervino, mentre al 2006 risale l’ideazione di una torre di 117 metri in vetro e acciaio a forma di piramide per il Piccolo Cervino.

I nostri giorni, figli della stagione delle funivie, sono caratterizzati da una meccanizzazione preponderante. Un fenomeno che ci chiama ad interrogarci sull’impatto, anche negativo, dell’architettura nell’esperienza dell’alta quota.

Assecondando le tendenze del turismo di massa, gli intenti dei progettisti corrono il rischio concreto di perdere di valore. Succede con edifici, strutture e strade, replicati secondo una maniera progettuale slegata dai contesti. Un modus operandi che scade nell’omologazione.

Riappropriarci di un’esperienza ad alta quota non filtrata dalla meccanizzazione o dall’architettura è dunque l’invito di Gibello. Affinché il nostro sguardo non risulti condizionato e si favorisca, invece, una consapevolezza dei propri limiti nel rapporto con la natura.

Laura Bona (Residenze eroiche)